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Ducati, dai diesel alla 996 attraverso il Bipantah: storia di una rinascita





Ormai l’erede della Panigale è sulla bocca di tutti, le prime foto spia cominciano a circolare. Il fatto che sarà dotata di un quattro cilindri a V desmodromico derivato concettualmente dalla GP15, prima Ducati interamente progettata da Gigi Dall’Igna, è un segreto di pulcinella, come il fatto che proprio il Generale Gigi avrà ampia voce in capitolo, per replicare i fasti della sua Aprilia RSV4. Ma questo non sarà il primo V4 realizzato da Ducati per le competizioni tra derivate dalla serie. Ce n’è un’altro, ormai dimenticato, che permise alla Ducati di rialzare la testa tornando a realizzare moto da corsa, dopo anni trascorsi a realizzare motori diesel per conto terzi: il Bipantah. Un motore che non fu utilizzato, ma che diede ai ragazzi del Borgo l’energia e la volontà di rivalersi, e con tale spinta emotiva prese vita l’imbattibile Desmoquattro.

Da sinistra, Fabio Taglioni, Massimo Bordi e Gianluigi Mengoli col prototipo 750 del 1986.
Da sinistra: Fabio Taglioni, Massimo Bordi e Gianluigi Mengoli col prototipo 748 i.e del 1986.

Alcuni giorni fa, parlandovi della nuova Ducati 1299 R Panigale Final Edition, abbiamo nominato Massimo Bordi, raccontandovi brevemente di come rinnovò profondamente il classico Pompone Ducati per la 851. Ne mantenne la distribuzione desmodromica a cinghie dentate e la configurazione ad L, introducendo la testata a quattro valvole ed il raffreddamento a liquido. Tuttavia questo passaggio non è stato così lineare, ma frutto di una scelta maturata dopo lunghe prove e tribolazioni. Vi erano due fazioni in Ducati a metà anni ottanta, ed entrambe avevano un progetto tanto rivoluzionario quanto fedele all’originario Pompone, per riportare Ducati ai vertici sportivi.

A metà anni settanta Ducati passò sotto controllo statale, tramite l’EFIM, ed appena 3 anni dopo (1978) venne girata alla VM Motori, anch’essa azienda statale sotto il controllo di Finmeccanica e specializzata nella realizzazione di motori Diesel. In quel periodo storico l’industria motociclistica mondiale viveva una piccola crisi: si cercò di risollevare Ducati tramite la produzione, e poi anche progettazione, di motori diesel per conto della controllante VM. Tra questi anche i 4 cilindri diesel dell’Alfa Romeo, pure lei sotto il controllo di Finmeccanica. Le moto così passarono in secondo piano, e la mancanza di novità portò un tracollo delle vendite, in due anni le moto vendute passarono da oltre 7’000 a meno di 1’700. La sola Pantah 500, seppur realizzata poi in più cilindrate tra i 350 ed i 650, faticava a tenere a galla tutta la baracca.

Ducati 600 TT2, realizzata nel 1981 partendo dal motore della Pantah 500. Fu in assoluto la prima Ducati con telaio a traliccio. Il motore fu elaborato portandolo a 597 cc, aumentandone l'alesaggio sino ad 81 mm. Vantava 78 cv a 10'500 giri/minuto ed un peso senza benzina di 140 kg.
Ducati 600 TT2, ultimata nel 1981. Il motore derivava dall’unità montata nella Pantah 500. Fu in assoluto la prima Ducati con telaio a traliccio. Il motore fu elaborato portandolo a 597 cc, aumentandone l’alesaggio sino ad 81 mm, mantenendo inalterata la corsa a 58 mm come prevedeva il regolamento TT. Vantava 78 cv a 10’500 giri/minuto ed un peso senza benzina di 140 kg.

Quello che poteva essere il colpo fatale fu la scelta di abbandonare ogni competizione, con la chiusura del reparto corse, dato che proprio con le competizioni Ducati riusciva a darsi notorietà. Taglioni, una volta progettata la poi rivelatasi stupefacente TT2, fu costretto a delegarne la realizzazione al team NCR, divenuto de facto un ‘reparto corse esterno’. Oltre alla produzione di motori diesel, industriali ed automobilistici, la Ducati ‘sovrapproduceva’ i bicilindrici della Pantah col fine di fornirli ad aziende esterne. Tra queste spiccava la Cagiva dei fratelli Castiglioni. Claudio Catiglioni voleva realizzare motociclette di media cilindrata nell’immediato, per poi tentare di scalare anche il segmento delle maxi. 

In questo turbinio di eventi che facevano sempre più traballare Ducati, l’Ingegner Fabio Taglioni, Direttore Tecnico ormai prossimo alla pensione e padre adottivo di tutti i Ducatisti, decise di muoversi. La Ducati senza moto e competizioni poteva chiudere in un paio d’anni, l’Ingegnere ne era conscio. Serviva un progetto convincente che riattivasse gli ingranaggi giusti. L’idea venne ad un giovane ingegnere, Pierluigi Mengoli. Mengoli era arrivato a Borgo Panigale nei primi anni ’70, e nel ’76 ricevette da Taglioni il compito di progettare e sviluppare una nuovo motore di media cilindrata, che avrebbe trovato posto in una nuova moto sportiva. Il Direttore si limitò a dettare le linee guida iniziali: bicilindrico desmodromico a L, raffreddato ad aria, non più di due valvole per cilindro: Taglioni aberrava i motori plurivalvole, due bastavano eccome. Dal primo incarico importante di Mengoli nacque appunto la Pantah. Dotata di un bicilindrico di 498 cc, riscosse un buon successo centrando l’obiettivo di sportiva accessibile, ed in seguito ne vennero realizzate versioni da 350 e 600 cc. E proprio da quel suo primo progetto, Mengoli trasse l’inspirazione.

Modello in legno e metallo del Bipantah, realizzato nel 1980 con disposizione a V di 90° centrata.
Modello in legno e metallo del Bipantah, realizzato nel 1980 con disposizione a V di 90° centrata.

Pierluigi aveva pensato di accoppiare idealmente due motori Pantah 500, per realizzare un nuovo motore. A Taglioni quest’idea piacque molto: credeva che con un propulsore nuovo e diverso, ma comunque difforme dai 4-in-linea dei giapponesi (la Honda VF 750 sarebbe uscita solo due anni e mezzo più tardi), si potesse rilanciare Ducati. Oltretutto con un costo contenuto dato il rimaneggiamento di ciò che già c’era in casa. La soluzione a quattro cilindri non era nuova per Ducati e Taglioni, che nel 1962 aveva realizzato il prototipo Apollo, una cruiser pensata per il mercato americano spinta da un mastodontico, per l’epoca, motore V4 di 1257 cc (non fu mai prodotta in serie), mentre nel 1964 fu realizzata la 125 GP avente un 4-in-linea.

Versione definitiva del Pantah con i suoi 4 carburatori.
Versione definitiva del Pantah con i suoi 4 carburatori.

La progettazione fu svelta: dopo un modello in legno e metallo, nel 1981 fu realizzato il primo prototipo. Un quattro cilindri a V di 90° disposto a L, fu studiata anche una versione ruotata all’indietro di 45°. La distribuzione era ovviamente desmodromica mono albero, due valvole per cilindro. Il raffreddamento era misto aria/olio mentre ad alimentare il motore ci pensavano, momentaneamente, quattro carburatori da 40mm della Dell’Orto. Erano decisamente estreme per l’epoca le misure di alesaggio e corsa: rispettivamente di 78 mm e 52 mm, per una cilindrata totale di 994 cc, in linea con l’allora limite di 1000 cc per la categoria TT1 del campionato TT. Misure uguali a quelle delle recenti Yamaha R1 ed Aprilia RSV4. I test al banco si susseguirono, arrivando a realizzare due diversi prototipi al fine di sviluppare e la versione ‘strada’, da omologare, e ‘corsa’.

Motore Ducati Bipantah su banco prova, 1982.
Motore Ducati Bipantah su banco prova senza carburatori nel 1982.

L‘ultima versione testata in configurazione ‘strada’, ovvero con gli accorgimenti necessari per rispettare le normative sulle emissioni sonore,  sviluppava una potenza di oltre 115 CV a 9’500 giri/min all’albero ( circa 105 cv alla ruota). Il 75% della coppia disponibile già a 3’000 giri/min. In configurazione ‘corsa’ aveva invece superato i 130 cv alla ruota a 11’000 giri/min. I dati si riferiscono, per entrambe queste configurazioni, alla versione alimentata a carburatori. Secondo Taglioni, mediante l’uso dell’iniezione elettronica al posto dei carburatori sarebbe stato facile superare i 150 cv alla ruota: un incremento del 15% sia di coppia massima che di potenza massima, raggiungibile anche in configurazione strada. Per fare un paragone, il motore della futura Ducati 851, dotata di iniezione elettronica, vantava in configurazione omologata stradale 105 cv all’albero a 9’000 giri/minuto.

Versione definitiva del Bipantah, con relativo telaio. 1982.
Versione definitiva del Bipantah, con relativo telaio del 1982.

Purtroppo a Taglioni e Mengoli non fu concesso di sviluppare ulteriormente il motore. La VM Motori era sempre più decisa a limitare il raggio d’azione della Ducati, ponendo in primo piano la realizzazione di motori semplici da rivendere a terzi. Nel 1983 venne imposto di fermare lo sviluppo del motore e venne abortita sul nascere la progettazione delle moto che avrebbero dovuto accoglierlo, una sportiva ed una sport-tourer. L’Ingegner Taglioni accettò suo malgrado, ma il Bipantah aveva dato a lui e a tutti la scossa giusta: c’era la volontà di rilanciare Ducati. Serviva trovare un acquirente, qualcuno che fosse appassionato di moto e competizioni.

E qui rientrò in gioco il gruppo Cagiva, che come detto era una delle aziende esterne a cui venivano venduti motori, l’unica ad acquistare motori motociclistici. Taglioni iniziò così a tessere rapporti sempre più stretti con Varese. Quel genio vulcanico di Claudio Castiglioni cedette alle lusinghe, ingolosito dalla possibilità di poter finalmente realizzare moto da sogno. Era innanzitutto fermamente convinto che il rilancio dovesse passare attraverso le competizioni. Il fatto di avere già del materiale quasi pronto, sia interno che proveniente da scuderie private, sicuramente poteva rendere il ritorno più svelto, a patto di fare le cose per gradi. Il primo passo dei Castiglioni fu riportare le competizioni al centro del mondo Ducati, e per farlo vararono la produzione di una moto di transizione.

Massimo Bordi e Fabio Taglioni con il 750 ricavato dal Pantah 650.
Massimo Bordi e Fabio Taglioni con il 750 ricavato dal Pantah 650, poi utilizzato sulla Ducati 750 F1.

Nei primi anni ottanta era il privato team NCR a far svettare in alto la bandiera di Borgo Panigale, attraverso artigianalissime e veloci motociclette realizzate su base Pantah, di cui restava sostanzialmente il monoblocco, non senza i consigli e la supervisione esterna di Taglioni. Si decise di realizzare una replica stradale della 750 che vinceva e convinceva nel Campionato TT, progenitore del Mondiale SBK. Nacque così la Ducati 750 F1, dotata del motore Pantah 650 potenziato e rialesato per raggiungere i fatidici tre quarti di litro. Di fatto non aveva nulla se non l’aspetto ed il disegno del telaio in comune con la 750 TT1. Nonostante le scarse prestazioni del motore, la moto vantava doti di guida eccellenti, grazie al telaio a traliccio leggero e comunicativo, ed inarrivabile leggerezza. Con la 750 F1 il gruppo Cagiva voleva far capire che Ducati c’era e stava tornando.

Il secondo passo fu quello di varare la nuova ammiraglia sportiva della casa e le strade erano due. Una era quella di riprendere in mano il Bipantah, l’altra invece puntava ad evolvere pesantemente il classico Pompone di Taglioni: a caldeggiare questa ipotesi era Massimo Bordi. Bordi, ingegnere, arrivò in Ducati nel 1978 dopo il passaggio di questa a VM Motori con il compito di progettare, e sviluppare, generatori diesel industriali compatti. Si rivelò però decisamente abile in ambito motociclistico arrivando ad occuparsi del motore della 750 F1. Nel 1983 divenne direttore tecnico della Ducati proprio in sostituzione di Taglioni, che rimase vicino all’azienda come superconsulente tecnico. Durante gli ultimi anni di studi Bordi rimase folgorato dal sistema desmodromico di Taglioni, al punto che la sua tesi di laurea (1974) verteva sulla realizzazione di una testata desmodromica bialbero a quattro valvole. E proprio qui nasce la sua proposta: mantenere il frazionamento a due cilindri, e raggiungere valori di potenza maggiori attraverso un maggior numero di valvole ed abbandonando il raffreddamento ad aria. Il 1985 si concluse con lunghe ed estenuanti riunioni.

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Ducati 748 I.E. utilizzata al Bol d’Or del 1986, pilotata da Marco Lucchinelli, Virginio Ferrari e Joan Garriga. Prima Desmo plurivalvole raffreddata a liquido.

Nella primavere dal 1986 Bordi ebbe l’occasione di mettere in pratica la sua idea, per la 24 ore del Bol d’Or che si sarebbe svolta a metà settembre. Partendo dalla 750 F1, ne modificò con il supporto di Taglioni e Mengoli i gruppi testa-cilindro: entrambi ora con un albero e due valvole in più, raffreddamento a liquido ed iniezione elettronica Weber Marelli. La moto che ospitò questo motore fu iscritta alla classica gara di endurance francese col nome di Ducati 748 I.E.. La prima volta che fu provato al banco, questo nuovo motore rivelò prestazioni già confrontabili con quelle del due valvole raffreddato ad aria al suo massimo sviluppo. Ciò, unito alle estremamente incoraggianti prestazioni in gara, convinse Castiglioni che insistette per sviluppare questo progetto. Al contrario il Bipantah perse appeal, complice il regolamento del nuovo Mondiale Superbike che andava prendendo forma: prevedeva un limite di 750 cc per i 4 cilindri contro i 1000 cc per le bicilindriche, le quali avevano pure interessanti vantaggi sul peso limite.

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Marco Lucchinelli al BoTT di Daytona del 1987.

Bordi, coadiuvato da Mengoli, continua a sviluppare il motore. La cilindrata del bicilindrico sale a 850,9 cc complici nuovi valori di alesaggio e corsa, ora di 92 x 64 mmil basamento invece rimane quello della Pantah 650, modificato sul lato destro per ospitare la pompa dell’acqua. I due ingegneri, unendo le forze, gli fanno superare i 115 cavalli e gli danno pure un nome: DesmoquattroL’appeal del Bipantah crolla completamente, il colpo di grazia glielo dà nel 1987 Marco Luchinelli, che vince senza difficoltà a Daytona la Battle of the Twins gareggiando con una moto, in livrea tricolore e numero 618, spinta dal nuovo motore.

Esemplare di preserie della 851, che nel 1988 fu messa in vendita inizialmente in colorazione Tricolore.
Esemplare di preserie della 851 con livrea replica cagiva C587, Nel 1988 fu messa in vendita inizialmente in colorazione Tricolore.

Da questo prototipo nasce la Ducati 851, e da lei tutta la serie di purosangue da corsa che hanno segnato la storia della SBK, con il Desmoquattro continuamente affinato e potenziato dal duo Bordi-Mengoli. Le successive versioni videro incrementare la cilindrata prima a 888 cc (aumento dell’alesaggio da 92 mm a 94 mm), poi a 916 cc (aumento della corsa da 64 mm a 66 mm), per terminare con la versione da 996 cc (alesaggio portato a 98 mm) presentata nel 1999 per la 996.  Nel 2000 la prima evoluzione importante, oltre ad un ulteriore accrescimento di cilindrata sino a 998 cc, le valvole che vengono avvicinate compattando la testata: il motore cambia nome in Testastretta, a montarlo la Ducati 996R che verrà schierata in SBK nel 2001 sostituendo la 996 SPS. Questo è l’ultimo acuto del duo Bordi-Mengoli: il primo si dimette alla fine del 2000 per divergenze con la nuova proprietà, la Texas Pacific Group che tra il 1996 ed il 1998 aveva acquisito interamente la Ducati; il secondo viene dirottato invece nel nascituro progetto MotoGP.

I Castiglioni, soprattutto la figura del compianto Claudio, salvarono così la Ducati dal divenire un misero deposito di motori, lanciandola verso le stelle e rendendola l’icona delle moto sportive. Ma sotto l’egida del gruppo Cagiva la Ducati non smise di realizzare motori per conto terzi. Lo fece un’altra volta, per conto di Ferrari. I rapporti tra i Castiglioni e i vertici del Cavallino Rampante erano ottimi, una profonda amicizia. La Ducati per un breve periodo di tempo, dal 1990 al 1992, produsse i propulsori otto cilindri progettati a Maranello, ma destinati per la seconda serie della Lancia Thema 8.32, che montava appunto un motore Ferrari, costruito a Borgo Panigale, in Ducati.
I rapporti tra Ducati, Cagiva e Ferrari non si esaurirono qui. Ma è un’altra storia, una storia che parla di un sogno di metà anni 90 che fece battere forte il cuore di tutti gli appassionati. E per ora non diciamo altro.

Troy Bayliss nel World Superbike con la Ducati 996 SPS, 2000.
Troy Bayliss esordisce nel World Superbike con la Ducati 996 SPS, 2000.




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Filippo Gardin

The author Filippo Gardin

Padovano classe 1993, ho iniziato a 2 anni a guidare, in quel caso una mini-replica della moto di Mick Doohan e da lì non mi sono più fermato. 2 e 4 ruote, entro e fuori strada e anche pista: cambiano le forme ma sono tutti frutti della stessa passione. Vi racconterò il Motomondiale, con la testa e con il cuore.