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Moto Guzzi VA-10: storia di una Superbike ed un rilancio mancati





Da trent’anni a questa parte la Moto Guzzi sembra l’ombra pasticciata di se stessa, nonostante di occasioni per il rilancio di questo marchio glorioso ce ne siano state almeno tre. Quella più eclatante riguarda il motore Moto Guzzi VA-10, un bicilindrico da un litro all’avanguardia, più potente delle contemporanee unità montate sulle Ducati 916/996 ed Aprilia RSV Mille. Addirittura al livello delle ben più recenti unità utilizzate per le 999 e RSV 1000 R. Forte pure di un’erogazione fluida al pari delle bicilindriche giapponesi, quali Suzuki TL1000 R e Honda VTR SP, vantava un vigore unico nel salire di giri sin dalle primissime accensioni al banco. Però il VA-10 non ha mai visto la produzione in serie, come il gemello diverso DM-10. Perché le Aquile sembra non debbano più poter volare.

N.B. a definire la longitudinalità o trasversalità di un motore è l’orientamento del suo albero a gomiti: se questo è parallelo al senso di marcia del veicolo si ha un motore longitudinale, se invece è perpendicolare si ha un motore trasversale.

Nei primi anni 90 Moto Guzzi si stava avviando verso una profonda crisi, con poche moto vendute e tutte in perdita. Serviva uno slancio verso l’innovazione, cavallo di battaglia di Moto Guzzi fino al 1975, per risollevare le sorti dell’azienda. Alejandro de Tomaso, all’epoca proprietario da quasi 20 anni, decise di lasciare il posto di Amministratore Delegato ad Arnolfo Sacchi. L’AD voleva migliorare la produzione a 360° gradi, e trovò un sostegno in Gianluca Lanaro, Direttore Marketing e Vendite. L’obiettivo era far riprendere a Guzzi il posto che le spettava nel mercato, rendendola principale alternativa a BMW, Harley-Davidson e Ducati nelle rispettive specialità. Per farlo serviva un aggiornamento tecnico profondo, i motori erano vecchi di 10 anni, ed un ampliamento della gamma sia verso il basso che verso l’alto. Serviva inoltre un mezzo per catalizzare l’attenzione, che ridesse prestigio alla Casa: si doveva tornare alle competizioni, Moto Guzzi doveva debuttare e competere in Superbike. Per farlo era necessario innanzitutto un motore nuovo e non solo al passo coi tempi, ma avanti. Nacque così il Guzzi VA10.

Ci si focalizzò subito sul frazionamento bicilindrico, necessario per competere appieno nella Superbike di quegli anni, ed a seguire il progetto fu l’ingegner Danilo Mojoli, a partire dal 1996. In futuro Mojoli avrà un ruolo importante nelle evoluzioni del motore V60 di Aprilia e collaborerà con Claudio Lombardi -già padre delle Delta S4 e direttore dell’attività motoristica della Ferrari in F1– per la progettazione e realizzazione dell’innovativo motore V4 che verrà installato nelle Aprilia RSV4.
Nel 1997, dopo meno di un anno, il primissimo prototipo del VA-10 era pronto. Per Sacchi era importante mantenere il feeling estetico del motore con i modelli precedenti, così il motore disegnato da Mojoli e Angelo Ferrari, DT della Casa di Mandello all’epoca, era longitudinale, coi cilindri a V trasversali, ma cambiava tutto il resto.

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Le alette di raffreddamento sparivano: il motore da 999 cc aveva il raffreddamento a liquido, che in Guzzi non si vedeva da quasi cinquant’anni. La V abbandonava i canonici 90°, in favore di un angolo più stretto pari a 75°. Questa scelta venne presa per centrare maggiormente le masse e conferire maggior angolo di piega. Per mantenere l’equilibratura e la fasatura degli scoppi identiche a quelle di un V di 90°, si sfalsarono i due perni di biella di 30° tra loro. Le fasi dei cilindri erano gestite da due albero a camme in testa con le testate girate di 90°, aspirazione e scarico quindi non più lungo l’asse longitudinale ma trasversale, per garantire maggior libertà di movimento per il pilota ed avere dei condotti di aspirazione più lineari ed efficienti.

Il Guzzi VA-10 era un motore al passo coi tempi e per certi versi all’avanguardia. Per esempio aveva misure di alesaggio e corsa pari a 100×63,6 mm, misure che verranno raggiunte solo nel 2000 dalla Honda, con la VTR 1000 SP. La Ducati 996 del 1999 stava a 98×66 mm, che diverranno 100×63,5 mm con la 998 nel 2002, misure mantenute dalla 999 prodotta fino al 2006.

La trasmissione finale abbandonava il cardano in favore della catena, con una coppia conica all’interno del motore per accordare i due versi, con la frizione ruotata di 90° a seguire il senso di marcia e quello degli alberi del cambio. Sfruttando adeguatamente questa coppia conica, ed il non avere la massa della frizione sommata a quella di albero e volano, si riuscì ad attenuare il classico fenomeno della coppia di rovesciamento dei motori longitudinali: l’ingranaggio che porta il moto alla distribuzione era controrotante, creava un effetto opposto per riequilibrare l’eventuale effetto giroscopico del motore. Inoltre il VA-10 poteva essere ruotato verticalmente di 90°, prendendo in questo caso il nome di V-Front, e era stato concepito con la possibilità di aumentare la cilindrata fino a 1200 cc, divenendo VA-12.

Gli alberi del cambio erano sovrapposti, per mantenere una dimensione longitudinale compatta quanto un 4-in-linea, ed il motore era ruotato in avanti di 15°: l’unione di questi due fattori avrebbe consentito l’adozione di un forcellone bibraccio molto lungo per l’epoca, oltre 600 mm, mantenendo un interasse relativamente contenuto, compreso tra i 1380 ed i 1410 mm a seconda dell’utilizzo. Questa sarebbe stata la base tecnica per quattro versioni: una per il turismo ad ampio raggio con almeno 105 cv, una naked e ovviamente una sportiva da oltre 130 cv denominata RS, da cui derivare la versione Corsa da 170 cv, per il Mondiale Superbike.

Il primissimo prototipo girò al banco per oltre 70 ore per uno shakedown, in configurazione RS, percorrendo una distanza stimata superiore ai 4’500 km, senza mostrare alcun possibile cedimento: era nato bene. I tecnici rimasero stupiti dal risultato: l’obiettivo era tirare fuori 125 cv, sin dalle primissime rullate il banco rilevò 134,5 cv a 9’700 rpm, regime dove si plafonava la crescita della potenza a causa dell’inadeguatezza degli iniettori utilizzati per il test. Nonostante tali limiti all’alimentazione il risultato al primo lancio era già superiore rispetto all’obiettivo finale che il team di sviluppo si era dato. Il motore allungava senza inciampi erogando oltre 130 cv da 9’000 a 11’000 rpm, regime ove era stato precauzionalmente posto il limitatore, mentre l’erogazione era fluida sin dai regimi più bassi e dai medi saliva così vigorosamente di giri al punto da rompere per tre volte il banco prova, nel corso di quelle 70 ore.

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Come detto il risultato era castrato dagli iniettori forniti da Marelli: si trattava di unità obsolete con un tempo di iniezione piuttosto lungo, 15 millisecondi. La casa italiana si adoperò per far arrivare a Mandello gli stessi iniettori forniti a Ducati per le competizioni, che nel giro di qualche anno sarebbero divenuti uno standard di serie. Rispetto ai precedenti, questi garantivano un tempo di iniezione pari a 9 millisecondi e con tale aggiornamento, la squadra di sviluppo era convinta di poter toccare i 145 cavalli, senza perdere ai medio-bassi e riposizionando il limitatore a 11’500 giri. Valori molto superiori a quelli dei rivali dell’epoca. Quei nuovi iniettori arrivarono, ma non vennero mai montati ed il secondo test non venne mai effettuato mentre il progetto era stato reso pubblico.

I progettisti della Guzzi disegnarono il telaio, sarebbe dovuto essere un traliccio in tubi d’acciaio, con piastre in alluminio al posteriore per infulcrare il forcellone. Mentre il progetto del telaio stava per passare dalla carta al metallo, ed un secondo test al banco dalla durata di 250 ore stava venendo imbastito cambiò l’amministratore delegato: la carica venne presa da Mario Scandellari. Questi riteneva la configurazione longitudinale non consona ad una sportiva che voleva competere e vincere, ma che si dovesse adottare un motore dall’albero motore trasversale, come Ducati e Honda, con un angolo di 90° tra le due bancate.

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Detto fatto, Mojoli disegnò in poco tempo il DM-10, sfruttando gli studi fatti per il VA-10 di cui manteneva l’alloggiamento dedicato alle coppie coniche per la trasmissione, anche se non necessarie. Nel complesso Mojoli disegnò il DM-10 con un occhio alla sua futuribilità, come per fatto per il VA-10: mantenendo l’alloggiamento per le coppie coniche, il motore poteva essere ruotato lungo l’asse verticale senza problemi, per trovare un impiego più vario. Vi era nuovamente la possibilità di salire di cilindrata sino a 1’200 cc, per dar vita ad un DM-12, col fine di competere senza timore nel mercato delle grosse sport tourer. Complice la differente ampiezza dell’angolo tra le bancate, la lunghezza delle bielle passava da 130 a 124 mm per compattare il motore attorno al proprio albero. Per tutto il resto era uguale al VA-10, con l’aspirazione sempre all’interno della V e non tangente.

Il DM-10 venne ultimato solo su carta. Prima che si potesse iniziare con la prototipazione, Aprilia acquistò Guzzi assieme a Laverda, mettendo in pausa il progetto. L’obiettivo era convergere gli sforzi sull’evoluzione della RSV Mille, dove finì Mojoli, e sulla nascente Cube. Beggio voleva un’Aprilia vincente in Superbike e competitiva in MotoGP, per poi sfruttare i successi e le soluzioni sperimentate su nuovi veicoli del gruppo. Non fu così. Qualche anno più tardi, Piaggio assorbì il gruppo Aprilia ed il Guzzi VA-10 finì in un magazzino mentre il fratellastro DM10 nel dimenticatoio. Con loro si smaterializzarono almeno 5 possibili modelli di motocicletta. Mentre Laverda svanì per sempre.

Tre anni fa, l’annuncio di una succosa novità a marchio Moto Guzzi aveva messo in fermento tutto il settore, da chi ci lavora ai semplici appassionati. Si parlò di un motore raffreddato a liquido, potente e versatile, per un ritorno di forza nella fascia alta del mercato: così è stato solo in parte. La V85 presentata ad EICMA nel 2017 è una endurona con cui sfidare Versys ed Africa Twin, con alcuni concetti stilistici molto interessanti, ma con la stessa filosofia meccanica delle Guzzi degli ultimi trent’anni. Eppure è bastato così poco per riempire lo stand della Moto Guzzi per due anni di fila. Figuratevi cosa sarebbe potuto succedere con una moderna sportiva, all’avanguardia, considerando che han tirato fuori 95 cv/l da un bicilindrico raffreddato ad aria omologato EuroIV.

Moto Guzzi è un marchio dal grande blasone e ricco di storia. Vanta un potere mediatico incredibile, potenzialmente maggiore a quello che Ducati è riuscita a costruirsi negli ultimi 25 anni. Se si va a guardare chi ha dato il via agli studi aerodinamici applicati alle motociclette, si scopre che è stata la Guzzi di Mandello: galleria del vento e appendici aerodinamiche per avere più stabilità all’anteriore, nei primi anni ’50. Le prime forcelle rovesciate di serie, con il Falcone del 1950, il primo impianto frenante integrale a tre dischi, realizzato con l’ancora acerba Brembo per la V7 750 Sport del 1975.

Proprio la V7 750 Sport, nella versione ancora munita di tre tamburi da 220 mm di diametro, annichilì tutte le rivali ben più sportive nel 1972 in una delle prime comparative moderne. La gran turismo sportiva di Mandello, forte anche di un innovativo telaio in tubi d’acciaio al cromo-molibdeno, a Monza rifilò addirittura 11 secondi alla Kawasaki 750 Mach IV, all’epoca considerata il non plus ultra in fatto di prestazioni velocìstiche. La Honda CB750 chiuse solo seconda, a 4”. Il problema è che per Moto Guzzi, tutto sembra essersi fermato al 1975. 

 





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Filippo Gardin

The author Filippo Gardin

Padovano classe 1993, ho iniziato a 2 anni a guidare, in quel caso una mini-replica della moto di Mick Doohan e da lì non mi sono più fermato. 2 e 4 ruote, entro e fuori strada e anche pista: cambiano le forme ma sono tutti frutti della stessa passione. Vi racconterò il Motomondiale, con la testa e con il cuore.