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Domenica 13 dicembre è andata in scena ad Abu Dhabi l’ultima gara in Ferrari di Sebastian Vettel. Una storia d’amore fortissima, ma che purtroppo non ha saputo concretizzarsi nel titolo mondiale. La dimostrazione che a volte l’amore non basta.

© Getty Images
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Caro Sebastian,

Io credo che tu non leggerai mai queste parole, per quanto devo dire che mi piacerebbe. Ma questo non importa, sento di doverti scrivere questa lettera lo stesso, perché credo che tu ti sia meritato che io, un comune mortale Ferrarista, sia davanti al computer a sera tarda a dedicarti un po’ del mio tempo. Il sipario è calato, le luci si sono spente, il teatro si è svuotato e tu sei rimasto solo, sul palco buio, ad ascoltare l’eco lontano degli applausi, ad assaporare ancora l’ultimo refolo di quella sensazione che per sei anni ti ha tenuto in vita: con lo sventolare della bandiera a scacchi di Abu Dhabi hai cessato ufficialmente di essere un pilota Ferrari. Sono stati sei anni lunghissimi: alla fine del 2014, quando venisti annunciato a margine del drammatico weekend di Suzuka, tu eri ancora il nemico, il perfido biondino tedesco che con la sua Red Bull sicuramente irregolare (figurati se questi bibitari possono davvero fare una vettura decente seguendo le regole) aveva privato il povero Alonso di ALMENO due mondiali strameritati. Al termine dei sei anni, invece, sei considerato da un lato uno dei piloti più amati dai tifosi, ma dall’altro per molti sei finito, un pilota che non vale più niente, anzi, un peso morto alla causa Ferrarista. In mezzo, 14 (per alcuni 15) vittorie, 55 podi, 12 pole e due secondi posti nel mondiale. Una parentesi che di fatto ti porrebbe a prescindere al di sopra il 90% dei piloti che abbiano mai corso in F1, ma che nel tuo caso rappresenta la parte “debole” della tua carriera. Ed è rileggendo questi numeri che mi vengono in mente due considerazioni.

La prima è: cosa resterà di Sebastian Vettel in Ferrari? Riguardando a questi sei anni penseremo a ciò che è stato o ciò che sarebbe potuto essere? Questo è un dubbio che riguarda sicuramente molti piloti, ma forse nel tuo caso è ancora più importante. Ricorderemo il bambino con il poster di Schumacher in camera che per due pazze estati consecutive ci fece sognare un mondiale o Lewis Hamilton che alla fine diventa campione del mondo con svariate gare d’anticipo? Rimarranno le vittorie, i salti e le danze sul podio, quel “ditino” tanto odiato in Red Bull ma tanto amato in Ferrari e i team radio in italiano, o gli errori, i testacoda, gli incidenti, le penalità, le delusioni? Solo il tempo ce lo dirà. Sicuramente, però non resterai destinato all’indifferenza. La tua esperienza a Maranello è e sarà sempre troppo intensa da dimenticare.

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La seconda considerazione è invece forse più difficile da fare: io credo sia colpa nostra. Nostra inteso dei tifosi, della stampa, degli addetti ai lavori. Perché prima ti abbiamo affidato un peso troppo grande da portare, quello di Michael Schumacher, e poi, quando abbiamo visto che questo macigno iniziava a trascinarti nel baratro, non solo non ti abbiamo aiutato, ma ti abbiamo spinto ancora più giù. Probabilmente era troppo per te e lo sarebbe stato per tutti, e forse il carico di pressioni ti ha portato ad esplodere in quel fatidico lungo di Hockenheim, l’inizio di una lunga parabola discendente che spero possa terminare con questa stagione. Eravamo avidi e disperati da un digiuno che iniziava a diventare sempre più lungo, e avevamo bisogno di un altro tedesco che ci tirasse fuori dall’incubo come l’ultima volta. E qui ti abbiamo condannato, perché tu non sei Michael. E probabilmente non è una cosa negativa, perché negli anni hai mostrato un lato che probabilmente un robot come Schumacher non avrebbe mai scoperto in pubblico, ma noi abbiamo premuto proprio in quel punto, forzando a cercare similitudini e paragoni, finché non è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E a quel punto non ci siamo preoccupati di tendere la mano in tuo soccorso, ma abbiamo ignorato il tuo silenzioso grido di aiuto. Ti abbiamo deriso, insultato, ferito, forse a vita, e tu non lo meritavi. E io per questo ti chiedo scusa a nome di tutti i tifosi, sperando che riusciremo a non commettere lo stesso errore con Mick Schumacher.

E quindi? E quindi, credo di dover riconoscere che questa scelta dal punto di vista professionale sia stata quella migliore. Per te, per la Ferrari, per noi, per tutti. Perché, come in ogni matrimonio, a volte il solo amore, per quanto grande che sia, non basta, ma servono anche pazienza, forza di volontà e, soprattutto, fortuna. Ma dal punto di vista umano trovo il tuo addio dalla Ferrari come uno dei bocconi più difficili da digerire della mia vita. Tuttavia, io non credo che questo sia un vero e proprio addio. Al di là della romantica ipotesi di vederti un giorno tornare vestito di rosso, magari non come pilota, ma con qualche veste dirigenziale al muretto con le cuffie, io credo che tu abbia smentito un vecchio detto: cioè che i piloti passano, ma la Ferrari resta. Credo, invece, che certi piloti, pur andandosene fisicamente, in realtà restino per sempre a Maranello, anche se in maniera ideale, albergando nei cuori di chi ha avuto il piacere di lavorarci insieme, di conoscerli o, semplicemente di tifarli. E te lo posso assicurare Sebastian, tu sei e resterai per sempre uno di quelli.

Grazie di tutto. Questo è stato un bellissimo viaggio.





Tags : f1f1 2020ferrariformula 1scuderia ferrarisebastian vettel
Alfredo Cirelli

The author Alfredo Cirelli

Classe 1999, sono cresciuto con la F1 commentata da Mazzoni, da cui ho assorbito un'enorme mole di statistiche non propriamente utili, che prima che Fuori Traiettoria mi desse la possibilità di tramutarle in articoli servivano soltanto per infastidire i miei amici non propriamente interessati. Per FT mi occupo di fornirvi aneddoti curiosi e dati statistici sul mondo della F1, ma copro anche la Formula E (categoria per cui sono accreditato FIA), la Formula 2, la Formula 3, talvolta anche la Indycar e, se ho tempo, anche tutte le varie formule minori in giro per il mondo.