Lewis Hamilton, Sergio Perez e Sebastian Vettel hanno rispettivamente 35, 30 e 33 anni. In Formula 1, il primo e il terzo hanno esordito nel 2007, il secondo nel 2011. Anni in cui molti degli attuali attori del Circus frequentavano le scuole medie. In alcuni casi, carte d’identità alla mano, addirittura le elementari.
Hamilton, Perez e Vettel, fanno parte di una generazione sotto attacco. Sono giovani in termini assoluti, questo è certo, ma sono in trincea. E lo sono da quando, nelle prove libere del GP degli USA e del Brasile 2014, il mondo ha assistito all’esordio di un minorenne a bordo di una monoposto di Formula 1. Max Verstappen ha segnato il sentiero: gente come Charles Leclerc, Lando Norris, George Russell, Esteban Ocon, Lance Stroll, Pierre Gasly e Alexander Albon ha provveduto, di lì a poche stagioni, a renderlo una strada. I figli degli anni ’90, il nuovo che ciclicamente, fatidicamente e inesorabilmente avanza, hanno costretto a una strenua resistenza i nati negli anni ’80 o giù di lì. Veloci, sfrontati, affamati di successi e bramosi di gloria, i ragazzi terribili che sono comparsi sulla griglia di Formula 1 privi di qualsiasi timore reverenziale hanno costretto i giovani di un tempo a difendersi, a lottare strenuamente per rivendicare il proprio ruolo, il proprio carisma, addirittura la propria permanenza in F1. Hanno riservato ai Vettel, agli Hamilton, agli Alonso, agli Hulkenberg, quel trattamento impietoso e naturalmente cinico che loro stessi avevano offerto in dono alla generazione precedente, in una giostra inarrestabile alimentata dallo scorrere inesauribile del tempo: i giovani vecchi, unicum di Hamilton escluso per evidenti mancanze intestine in Casa Mercedes, sono stati messi sotto pressione. Da chi, cronometro alla mano, per la prima volta dopo tanto tempo gli dimostrava di avere più velocità, più ritmo, più fame.
Ad Istanbul, su un asfalto sconosciuto e irriconoscibile, è accaduto però qualcosa di diverso. Le nuvole e la pioggia caduta dal cielo della Turchia, uno di quelli che raramente mostra il broncio al mondo, hanno messo di fronte tutti i piloti del Circus di fronte all’imprevedibile, all’ignoto. In ogni curva l’auto si sarebbe potuta comportare in maniera diversa rispetto a quella precedente, in preda a un grip in costante cambiamento le reazioni della monoposto sarebbero state improvvise, con dei pneumatici naturalmente predisposti al degrado ci si sarebbe dovuti preparare a mutare e adattare il proprio stile di guida a seconda della fase di gara che si stava disputando.
In Turchia, prima ancora di auto e talento, sono tornate a contare testa ed esperienza. La capacità di saper resistere, di saper pazientare, di saper rimanere se stessi anche quando attorno tutto cambia. Nessuno è infallibile, ma ci sono errori ed orrori: il lungo di Hamilton nel corso del primo giro appartiene alla prima categoria, il doppio testacoda di Verstappen compiuto dopo l’improvvido tentativo di sorpasso nei confronti di Perez – lo stesso pilota che, guarda caso, ha portato al bloccaggio Leclerc – fa parte a pieno merito della seconda. A Istanbul la vera differenza, oltre a un talento che escludendo picchi inarrivabili si presume diffuso e distribuito su buona parte della griglia e a una monoposto capace di mettere a proprio agio il pilota, l’ha fatta la mentalità. Lewis Hamilton, fresco vincitore del 7° Titolo Mondiale, dopo essersi scomposto nei primissimi metri a seguito di una splendida partenza dal lato sporco passata troppo sotto silenzio, non ha mai oltrepassato il limite pur lambendolo in diverse occasioni; Sebastian Vettel, che dopo una gara strepitosa si è ritrovato alle spalle di un compagno di team rimasto lontanissimo nei primi passaggi, non si è disunito né dopo il tempo perso al pit, né nelle fasi della lotta – volontariamente resa effimera – con Leclerc, né quando il #16 lo ha lasciato sul posto in virtù di quella velocità in più che il monegasco effettivamente aveva; Sergio Perez, anche lui incolpevole protagonista di una poco felice sosta ai box e finito a quasi 10″ di ritardo da Stroll nelle prime fasi, non ha mollato di un centimetro nei confronti di nessuno dei suoi avversari neppure quando la sua RP20 ha cessato di essere davvero efficace.
Dall’altra parte della barricata, intenti ad attaccare con furia ferina i già asserragliati in trincea, Verstappen, Leclerc e Stroll hanno visto svanire davanti ai loro occhi e grazie alle loro stesse mani risultati che erano consapevoli di poter conquistare. Un piazzamento a podio nel caso di Leclerc e Stroll, addirittura forse una vittoria per Verstappen, tanta croce e poca delizia assieme ad Albon per una Red Bull che tra gli umidi cordoli di Istanbul era parsa addirittura in grado di far tremare il Golia di Stoccarda. In Turchia si è trattato di fare le scelte giuste, con i modi giusti e al momento giusto: e l’esperienza, sui piatti della bilancia, ha avuto la meglio sul puro talento. Oggi si doveva correre senza irruenza e foga ma con accortezza e assennatezza, due doti che pur andando spesso a braccetto con il talento non ne sono gemelle avendo tempi di maturazione totalmente differenti.
Perché sì, è nella maturazione e nella maturità nascoste tra le pieghe dei 32,7 anni di media del podio di Istanbul che giaceva la chiave per varcare il confine ultimo della Formula 1. Un paese che forse era stato troppo presto definito “non per vecchi”.