Storia di una vettura tanto esclusiva quanto incompresa dal mercato, capace di vederla esclusivamente come una Maserati Biturbo Spyder con l’hard top. Vediamo di fare chiarezza e rendere alla Karif l’onore che merita…

Non capita tutti i giorni di imbattersi in una storia simile a quella che state per leggere. Stiamo per affrontare la genesi e il percorso di vita di una vettura tanto prestazionale quanto incompresa. Un’auto che ha visto la sua fiamma bruciare troppo e troppo in fretta, senza il tempo di farsi capire e pagando lo scotto di una gestazione che l’ha vista osare troppo poco dal punto di vista estetico. Insomma stiamo parlando di un mastodontico “what if” relativo alla Motor Valley e a uno dei suoi marchi simbolo. Signore e signori: la Maserati Karif!
Dalla Merak alla Quattroporte di Pertini
Nella storia Maserati esistono un ante-Biturbo e un post-Biturbo, sintetizzando così gli anni 80 dello storico marchio modenese, come previsto dal Vangelo secondo Alejandro De Tomaso. Già, la Biturbo, una vettura divisiva come poche altre nel mondo dell’automotive, capace di generare amori immensi o rancori incommensurabili. In effetti parliamo di una vettura che ha cambiato radicalmente la storia e le sorti di un marchio, non necessariamente in meglio, dopo le catastrofi sfiorate con la gestione Citroën e anni di De Tomaso Longchamp rimarchiate o giù di lì.
Merak e Indy si presentano all’appuntamento con gli anni 80 indubbiamente stupende, ma generate da vecchie gestioni e incapaci di portare quella stabilità economica così a lungo ricercata in tempi di crisi petrolifera. Nel 1979 si intuisce che qualcosa inizia a cambiare, con il lancio della Quattroporte che rende finalmente onore al marchio del tridente. Fornire la nuova auto presidenziale al presidente Pertini rappresenta decisamente un bel colpo, garanzia di un ritrovato prestigio internazionale.

Si decide così di ampliare la gamma verso il basso, attirando così quella clientela che negli anni ottanta fa gola a tutti i produttori premium: gli yuppies! Già, perché una clientela di quel livello deve poter contare su di una vettura tutta italiana e che sia prestazionale, dimostrandosi elegante, lussuosa ma al passo coi tempi. Ah, ovviamente senza costare uno sproposito…
Maserati Biturbo: da Modena con calore, pure troppo…
Per qualcuno potrebbe trattarsi di follia, per altri di una illuminazione quasi mistica! Non sta a noi giudicare, sappiamo solo che la Biturbo entra in produzione nel 1982 destando scalpore per la sfarzosità degli interni e per le prestazioni fornite dal propulsore da 2 litri, dotato di 6 cilindri a V, alimentato a carburatori e in grado di erogare 180cv.

Ovviamente la cilindrata di 2 litri viene riservata solamente al mercato italiano mentre all’estero, dove non vi sono problematiche fiscali, il motore sale a 2,5 litri di cilindrata per una potenza di 192cv. Il punto cardine del motore, discendente del V6 siglato C.114 della Merak e a sua volta derivato dal V8 nato dal genio di Giulio Alfieri, sono le due turbine che contribuiscono al naming della nuova nata.
La produzione viene ripartita in due fabbriche: motore e sospensioni nascono a Modena, tutto il resto viene assemblato nella fabbrica Innocenti di Lambrate, altro marchio della galassia De Tomaso. In tutto questo però qualcosa va storto, ovvero sin dall’inizio le finiture non sono adeguate e per migliorare la qualità si finisce per intervenire pesantemente sul prezzo finale che passa, sul mercato italiano, da 22 a 26 milioni di lire.

In America le cose vanno pure peggio, con la Biturbo che si fa una fama terribile a causa di alcuni principi di incendio legati al sistema di scarico, sostenuto da anelli di gomma sintetici che hanno il piccolo problema di andare a fuoco alle alte temperature generate dal catalizzatore. Chi, come gli accaniti lettori di Fuori Traiettoria, conosce le logiche particolari del mercato statunitense sa benissimo che dopo problemi di affidabilità simili la frittata è fatta e risulta quasi impossibile rifarsi un buon nome. La logica conseguenza è che le vendite non vanno come previsto e le cinquemila vetture da vendere in un anno restano un miraggio assoluto, così come le 35 vetture da produrre in un giorno. Non bastano neppure il miglioramento continuo della qualità e della meccanica, come del resto le versioni a quattro porte e Spyder. Con gli anni arrivano l’iniezione elettronica e modelli sempre più lussuosi e raffinati, ma risulta difficile affrancare il destino della vettura dai primi anni decisamente insoddisfacenti. Nonostante tutto, la Biturbo genera una famiglia di vetture che rimangono comunque un successo, seppur minore delle aspettative, calcando la scena sino al 1994.
La nascita: arrangiarsi ma con stile
La nostra storia comincia quando il vulcanico Alejandro De Tomaso in persona decide che sia arrivato il momento di riproporre una sportiva senza compromessi. Le principali caratteristiche saranno leggerezza, potenza elevata e raffinatezza, così da riprendere la tradizione della casa del tridente fatta di auto GT tanto belle quanto prestazionali e comode. Si vuole fare concorrenza alle Granturismo più in voga del momento, quali la Ferrari 328 GTB o la sempreverde Porsche 911 Carrera, per non parlare di una ulteriore outsider come la Renault Alpine V6 Turbo. L’occasione propizia si crea col restyling della gamma Biturbo avvenuto nel 1988, fautrice di una ventata di rinnovamento nella gamma motori del modello. Come base tecnica per il debutto della nuova vettura si opta per il pianale della Spyder, con il passo accorciato da 2514mm a 2400mm rispetto alla Biturbo, migliorando così la rigidità torsionale e dando vita a un corpo vettura più agile. Ovviamente non si possono pretendere misure interne da monovolume quindi la vettura nasce come una 2+2, anche se come nella miglior tradizione della categoria i posti dietro sono decisamente di fortuna.

E in effetti non è facile trovare uno yuppie con prole al seguito… Quelli sono problemi che si presentano più avanti, per chi prende come riferimento l’Avvocato Gianni “Cipollino” Agnelli (citazione per buongustai cinefili). Per il propulsore la scelta ricade sul nuovo V6 da 2790 cm³, portato al debutto dalle 430i, Spyder 2.8i e 228, ma la potenza di 250 cv non è reputata sufficiente per la nascitura. Si ottengono così 285 cv, una potenza decisamente importante, specialmente se accoppiata ad un peso poco sopra i 1300kg e a 432Nm di coppia massima. Ovviamente in piena tradizione Biturbo, nel bel mezzo di un’epoca in cui avrebbero sovralimentato anche le carriole, la parte del leone la fanno due turbine IHI che permettono al motore di ottenere performance da urlo: da 0 a 100 km/h in soli 4,8 secondi per una velocità massima di 255 km/h.

E veniamo ad uno degli aspetti più controversi, ovvero la linea. Qualcuno dice che sembri una Spyder con l’hard top, in realtà vorrebbe prenderne le distanze ma forse lo fa in maniera troppo lieve. Il risultato non convince appieno, risultando divisivo nel pubblico che non apprezza il tetto, accusato di non superare il centro della ruota posteriore. All’interno la casa modenese trasporta tutto il meglio della 430, ovvero il top di gamma della Biturbo, proponendo un interno rivestito in pelle e radica. Queste finiture di lusso danno un effetto forse un po’ barocco all’interno ma contribuiscono alla sensazione di un “salottino italiano” che da sempre ha accompagnato la Biturbo in tutte le sue declinazioni. L’orologio dorato di forma ellittica fa bella mostra di sé al centro della plancia, subito sopra alla console del climatizzatore automatico, vera chicca per l’epoca che ancora non lo vedeva diffusissimo come al giorno d’oggi. Il volante in radica fa il paio con la leva del cambio, totalmente rivestita in radica e con la prima in basso. Già, perché il cambio viene ripreso pari pari dalla Biturbo, confermando lo storico ZF a 5 marce, purtroppo non esente da impuntamenti.
Il battesimo e il triste epilogo
Il nome segna la prosecuzione del filone “eolico”, con la nuova nata che viene battezzata Karif, in onore di un vento che spira nel Golfo di Aden, tra la Somalia e lo Yemen.
La presentazione avviene al salone di Ginevra del 1988, nel mese di Marzo, lasciando alla Karif un’accoglienza decisamente tiepida. La linea non convince e non le si riconosce un surplus tecnico tale da giustificare la differenza economica con la più semplice Biturbo coupè. Le prove su strada del periodo raccontano di una macchina per piloti veri, dal comportamento burbero a causa della potenza decisamente importante in ballo. La Karif fa slittare le gomme anche all’inserimento della quarta, nonostante il differenziale autobloccante Ranger cerchi di limitare i danni di un propulsore dal turbo lag quasi inesistente che mette a disposizione tutto e subito. Il posteriore si rivela abbastanza ballerino, risultando propenso alla scodata e rendendo il tutto più complicato. Il comportamento in curva non convince appieno, mostrando una tendenza a seguire con un certo ritardo le indicazioni del guidatore, forse a causa dello sterzo servoassistito. Inutile dire che la sostanza non manchi affatto, dato che i riferimenti sono da prima del settore, dalla potenza alla coppia, passando per l’accelerazione… E tutto a un prezzo decisamente più basso delle concorrenti! Già, perché il prezzo finale diviene di 65.500.000 lire, quasi 30 milioni in meno della Ferrari 328 GTB e quasi 15 in meno della Porsche 911 Carrera.

Una prima mazzata arriva dall’adozione del catalizzatore, che “strozza” il V6 riducendo la potenza a 224 cv, 61 cv di potenza persi in tributo al rinato ecologismo che contraddistinguerà gli anni 90. L’affossamento definitivo arriva però dalle vicende societarie che vedranno, pochi mesi dopo l’inizio delle consegne, De Tomaso cedere il 49% della Maserati al gruppo Fiat dopo aver chiuso il bilancio con 37 miliardi di lire di perdite a fronte di 200 miliardi o poco più di fatturato. Queste premesse porteranno all’acquisizione completa del marchio, che nel 1993 verrà rilevato da Fiat e posto sotto l’ala protettrice di Ferrari, ma questa è un’altra storia… Tornando a noi, ovvero alla Karif, purtroppo questa mossa aziendale fa suonare le campane a morto per un progetto che non ha mai convinto del tutto e che nonostante ciò resterà a listino fino al 1991, pur se abbandonato a sé stesso. Il carico ulteriore ce lo metterà una meccanica molto particolare e altrettanto delicata, afflitta dai problemi dei propulsori sovralimentati del periodo, solamente in misura maggiore avendo ben due turbine. Insomma l’eredità Biturbo si fa sentire anche qui, minando la credibilità di un modello che voleva dimostrarsi più lussuoso e prestazionale rispetto alla base di partenza. La Karif se ne andrà così, dopo soli 221 esemplari venduti, lasciando un senso di incompiuto pensando che con poco in più si sarebbe potuto ottenere una granturismo coi fiocchi.
Ad oggi possiamo dire che il mercato dell’usato le sta restituendo quella esclusività che fino a pochi anni fa le era stata negata, spuntando quotazioni doppie rispetto alle coeve Biturbo nelle varie declinazioni e maggiori di almeno un buon 30% rispetto alla Spyder da cui deriva. Che sia arrivato il momento di metterne in garage una? Di certo una tiratura così limitata vale un investimento tutto sommato contenuto, l’ideale per chi voglia fare un viaggio nello yuppismo più sfrenato che ha contraddistinto gli anni 80… Ci vediamo a Cortina, cipollini!


