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La MotoGP ricorda Nicky Hayden: il sorriso di Kentucky Kid tra le colline del Mugello





Cammino a passo lento, tra la fiumana che popola il Paddock dell’Autodromo del Mugello. “Non ha senso correre” penso, “C’è troppa calca”. Motorini che a velocità irreali sgusciano via tra la folla, tifosi che come palline intrappolate in un enorme flipper rimbalzano frenetici tra i Motorhome alla ricerca del proprio pilota preferito, ombrelline che passeggiano con ostentata e misurata calma, uomini dei team che si scambiano a mezza bocca un commento, una battuta, una frase prima di tornare a camminare con passo svelto verso la loro destinazione.

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Lascio che i miei passi siano guidati dal rumore, per trovare quello che sto cercando. E’ come una climax discendente, una tumultuosa confusione che declina dolcemente fino a ridursi ad un rispettoso brusio. Dal centro del Paddock, costellato dalle hospitality luccicanti dei vari team, mi dirigo verso uno degli ingressi alla Pit Lane. La folla, che inizialmente mi circondava, inizia a diradarsi sempre di più. Ed è dopo aver svoltato un angolo ed essermi lasciato alle spalle gli ultimi scampoli della fiumana dei tifosi che le vedo.

Una Honda RC 211-V, livrea Repsol. Una Ducati Desmosedici, livrea Ducati ufficiale. Una Honda RCV 1000R, livrea Aspar. Una Honda CBR 1000 RR SP, livrea Ten Kate. Tutte schierate, lucidate, apparentemente pronte per essere accese e per scendere in pista. Tutte con lo stesso numero impresso sulla carena. Tutte con il #69. Tutte con il numero di Nicky Hayden.

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Non sono trascorse neppure due settimane da quando Kentucky Kid se n’è andato. E’ la prima gara che la MotoGP affronta dopo aver perso una parte di sé, e francamente non so bene cosa aspettarmi da un ambiente che mi sono sempre chiesto se possa avere il tempo di rallentare, di fermarsi a riflettere, semplicemente di ricordare. Perennemente in lotta contro il millesimi, privi di una dimora fissa, raminghi combattenti contro il tempo, possono trovare un modo per lasciare che i loro movimenti ed i loro pensieri vengano rallentati dalle spire della memoria? Mi fermo davanti alle moto di Nicky, ed è cercando una risposta a questa domanda che lo guardo negli occhi. Sì, perché dietro tutte le creature a due ruote guidate dal #69 c’è lui. O meglio, un suo disegno. Che lo raffigura in un sorriso, il suo sorriso, quel sorriso scanzonato da yankee che pareva voler dire agli altri di stare tranquilli, perché tanto Nicky un modo per risolvere la questione, qualsiasi questione, lo aveva.

“Racing motorcycles is just a way of life for me”, recita la frase che su quella parete separa il suo viso da quel #69 così orgogliosamente colorato a stelle e strisce. Correre sulle moto non era un mestiere, era un modo di vivere. Probabilmente l’unico che Nicky conosceva. “It is more than just a job. It’s a passion“. Ed è probabilmente per questo, per l’aver vissuto qualcosa con quella genuinità che solamente una viscerale passione permette di avere, che Nicky Hayden ha lasciato al mondo della MotoGP molto di più di quello che i freddi numeri possano dire. Me lo ricordano quelle moto lì davanti, me lo ricordano i tifosi che si fermano in silenzio davanti a quel simulacro incastonato tra le colline toscane, me lo ricordano gli uomini dei team che, passando lì vicino, lanciando uno sguardo si lasciano andare ad un sorriso amaro. E me lo ricorda anche un piccolo pezzo di stoffa nera, attaccato con una spilla alla manica sinistra della mia maglietta. Perché tra i tanti team del Motomondiale io, nel primo weekend di gara del dopo Hayden, sono in quello in cui lavorano più persone che con Kentucky Kid hanno condiviso gioie, dolori, sconfitte e vittorie. “Sì” mi dico mentre apro la porta d’ingresso dell’hospitality di Honda HRC,sarà sicuramente cambiato qualcosa da quel weekend a Misano lo scorso anno…”.

I sorrisi. Ecco cosa è cambiato. Presenti, come sempre. Frequenti, come sempre. Tirati, come credo molto raramente accada. Soprattutto sui volti di chi, con Nicky, ha lavorato anche in Ducati. E quindi Kentucky Kid lo ha vissuto sulla propria pelle per più anni, fino ad assorbirne una parte dello spirito. Me ne rendo conto, indubitabilmente, durante la cena della prima sera, quando si parlava della visita che avrei dovuto fare il giorno dopo nella nuova Energy Station di RedBull. “Sai, ho parlato con Nicky…”, mi dice qualcuno. E’ un altro Nicky, ovviamente. Talmente altro che, a dirla tutta, il suo nome corretto è “Nicki”. Ma quella somiglianza è sufficiente a far svanire la voce nel silenzio. Quel paio di secondi di silenzio che, inevitabilmente, ogni essere umano impiega per chiudere la porta dei ricordi, che al solo sentire un certo nome hanno iniziato a fluire incontrollati. Poi la voce riprende a parlare, ma la pausa è stata troppo lunga per non essere notata. “E allora sì”, mi dico, “forse persino la MotoGP ha il tempo per riflettere…

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Sala stampa dell’hospitality HRC, poco meno di 12 ore dopo la cena che ha iniziato a darmi le risposte che cercavo. Sto cercando una persona, ma la sala stampa è desolatamente vuota. Faccio per andarmene quando all’improvviso mi cade lo sguardo sullo sfondo di uno dei PC. Ci sono due persone vestite di rosso, sedute l’una di fianco all’altra su una curva dall’inclinazione assurda ed inconfondibile. Il Cavatappi. Il simbolo di quella Laguna di cui Nicky, in sella alla Honda, è stato Mostro indiscusso. Mi avvicino per guardare meglio, colpito dai sorrisi di entrambi, così diversi da quelli che ho visto fino a quel momento, quando sento qualcuno entrare nella sala stampa. Mi guarda, guarda lo schermo del suo PC, e con la mano manda un bacio fino a toccare la guancia di Nicky sullo schermo. Poi, con quel sorriso rassegnato che hanno solo le persone che sanno di aver perso per sempre qualcosa a cui tenevano, mormora “Ah, che cosa eri…”, prima di girarsi e lasciarmi di nuovo solo nella sala stampa, a fissare quello schermo e a chiedermi come fosse possibile che, poco più di mezza giornata prima, mi stessi chiedendo se il mondo della MotoGP potesse davvero essere in grado di ricordare qualcuno.

Sabato sera, ultima cena nell’hospitality HRC. La MotoGP ha di fronte a sé un altro back-to-back, e dato che dopo la gara tutto verrà smontato nell’arco di pochissime ore la cena della domenica sera si farà da qualche altra parte. Il clima è disteso, c’è ottimismo per la gara del giorno dopo. E così, tra una chiacchiera e l’altra, si scivola pian piano nel mondo degli aneddoti passati. Si va indietro nel tempo. Fino a quando, ascoltando uno dei tanti racconti, tutti i presenti non si ritrovano ad immaginare Nicky Hayden che, con in mano una racchetta da squash, scimmiotta Casey Stoner impegnato a non scivolare su un campo pieno di aghi di pino. L’imitazione dei gesti, delle espressioni, delle frasi di Kentucky Kid fa sorridere tutti ma poi, all’improvviso, tutti si rendono conto che quella persona di cui si stanno provando ad immaginare movenze e suoni è in realtà un fantasma. Lo sguardo di chi fino a pochi istanti prima aveva raccontato si perde nel vuoto: “Madonna, ancora non riesco a crederci che non ci sia più…. Parole che cadono come macigni sull’animo di ciascuno dei presenti, con una cappa di dolore che piomba, inesorabile come solo i ricordi sanno essere, sulla tavolata, lasciando tutti in balia dei propri pensieri. Tutti, nessuno escluso, rivolti a quel #69 che non c’è più.

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Non ho osato chiedere altro, su Nicky Hayden, nel corso della mia permanenza al GP del Mugello tra le fila di Honda HRC. Quello che ho visto, e che in parte vi ho appena raccontato, credo sia stato sufficiente per farmi un’idea della profondità e della sincerità del dolore di chi, per uno scherzo del destino, ha perso qualcuno con cui aveva costruito una parte della propria vita, una parte di sé. Non avevo bisogno di sapere se Nicky era davvero eccezionale come lo descrivevano tutti, non avevo bisogno di chiedere se nel loro piccolo a Kentucky Kid ci si pensasse ancora: quei gesti, sinceri nella loro assoluta spontaneità, mi avevano già dato tutte le risposte che stavo cercando. Sì, il #69 era davvero tutto quello che si sentiva dire su di lui: simpatico, estroverso, sincero, disponibile, cordiale, leale. E sì, il mondo della MotoGP ha decisamente tempo per riflettere, per pensare, per ricordare, anche se è perennemente in movimento.

“C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità ed oblio – scriveva Milan Kundera nella sua opera “La Lentezza” – “Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio“. Per Kundera più si va veloce e più si cerca di dimenticare. Più si rallenta, più si tenta di ricordare. Due “equazioni elementari”, secondo la sua definizione, che nel weekend del Mugello la MotoGP mi ha dimostrato di aver sublimato nella sua esistenza. I piloti hanno perso un collega, hanno visto scomparire una persona che, come loro, aveva accettato di giocarsi la vita in quasi tutti i weekend dell’anno: pensare a questo, a quanto la morte corra vicina alle loro esistenze, potrebbe far perdere loro lucidità, concentrazione, determinazione. E’ per questo che loro, di Nicky, parlano il meno possibile, ed è anche per questo che salgono in moto e si lanciano a 300 km/h, per non dare tempo alla loro testa di pensare, per costringere i ricordi a stare in un angolo. Il grado di velocità è direttamente proporzionale all’oblio, ricordate?

Ma la MotoGP non è fatta di soli piloti. Al loro fianco ci sono anche tutti gli altri componenti di questo universo fantastico. E a loro non si impone in maniera irremovibile di correre al massimo senza sosta. A loro, anche se per pochi secondi, si permette di sostare, di tirare il fiato, di rallentare. E di conseguenza di far accendere la memoria. Per far sì che i ricordi non svaniscano, portandosi con sé anche quelle persone che in vita abbiamo imparato ad apprezzare.

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Come Nicky Hayden.  





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Stefano Nicoli

The author Stefano Nicoli

Giornalista pubblicista, innamorato dal 1993 di tutto quello che è veloce e che fa rumore. Admin e fondatore di "Andare a pesca con una LMP1", sono EXT Channel Coordinator e Motorsport Chief Editor di Red Bull Italia, voce nel podcast "Terruzzi racconta", EXT Social Media Manager dell'Autodromo Nazionale Monza e Digital Manager di VT8 Agency. Sono accreditato FIA per F1, WRC, WEC e Formula E e ho collaborato con team e piloti del Porsche Carrera Cup Italia e del Lamborghini SuperTrofeo, con Honda HRC e con il Sahara Force India F1 Team. Ho fondato Fuori Traiettoria mentre ero impegnato a laurearmi in giurisprudenza e su Instagram sono @natalishow