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La Mission One è diventata Impossible?





Ad Aragon le Yamaha M1 hanno raschiato il fondo. Tutti e quattro i piloti fuori dalla Top10 in qualifica, Rossi il migliore in gara chiudendo 8° grazie anche alle cadute di Crutchlow e Lorenzo. Il punto debole di questa moto non è uno solo, c’è una debolezza ramificata nell’intera moto ed in parte irrisolvibile per regolamento entro la gara di Valencia in novembre. Da una parte un regolamento che congela il motore, da un’altra l’incapacità di comprendere le piccole libertà che la centralina unica garantiva ai costruttori. E poi delle Michelin che sembrano inconciliabili con motori 4-in-line in tutti i tracciati.

È facile trovare il capro espiatorio quando una moto non rende: è colpa di chi la guida. Lo si è fatto per anni con le Ducati, il primo ad essere defenestrato fu il leggendario Troy Bayliss. Ma non è affatto così. C’è addirittura chi va ad addossare le colpe o i meriti di un progetto mal o ben riuscito al pilota. Quando in realtà la figura del pilota ingegnere è una leggenda metropolitana. 

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Ad oggi Yamaha è la terza forza del campionato, così come nella seconda metà dello scorso anno, quando per tutto il 2015 e buona parte del 2016 è stata la moto da battere. Lo stesso Rossi invocava una rivoluzione tecnica per mantenere la M1 al vertice, a metà del 2016. Cos’è successo in quell’anno? Sono arrivate due grosse novità: gomme Michelin e centralina unica per tutti. Da lì in poi ad Iwata sembrano aver perso l’orientamento.

Se la situazione non è critica come nel 2003, per Yamaha, è più per demeriti di Honda e dei piloti Ducati che non per meriti di Iwata. I podi di inizio stagione hanno illuso i tecnici giapponesi di aver imboccato la strada giusta.
Dal punto di vista tecnico possiamo notare tre cause di questa sofferenza, due recenti ed una storica: albero motore troppo leggero, la gestione della centralina unica e della piattaforma inerziale libera ed il difficile rapporto tra la filosofia alla base della M1 e queste Michelin.

Cosa differenzia questo monogomma Michelin dal precedente monogomma Bridgestone? La filosofia costruttiva di base: carcassa molto rigida e mescole morbide per la casa giapponese, carcassa più flessibile e mescole più tenaci per la casa francese. Le Bridgestone avevano bisogno di un marcato trasferimento di carico per raggiungere e mantenere la temperatura ideale, garantendo però un alto rendimento con usura limitata: quasi sempre i giri più veloci venivano fatti registrare nelle ultimissime fasi di gara. Al contrario le Michelin hanno bisogno di stress molto ridotti, se si forza troppo il rischio di non aver più gomma nell’ultimo terzo di gara è reale. Ora succede spesso che nella prima parte di gara i piloti tengano un ritmo molto basso, per salvaguardare le gomme e sfruttarle al meglio solamente quando il serbatoio è andato ad alleggerirsi.

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Inoltre col passaggio da Bridgestone a Michelin è cambiato il rapporto di aderenza tra anteriore e posteriore, senza contare il passaggio a cerchi da 17”. Le Bridgestone garantivano più aderenza all’anteriore e lavoravano ad angoli di piega vicini ai 65°, premiando quell’idea di moto che metteva l’handling prima di tutto. Le Michelin raggiungono angoli di piega leggermente inferiori ed hanno invece più aderenza dietro. Nei primi test la differenza era così marcata che, in piega, al primo tocco sul gas l’anteriore perdeva aderenza chiudendosi. Quindi, questo cambiamento di fornitore, ha avvantaggiato il baricentro più spostato verso la ruota posteriore dei motori V4, svantaggiando i 4-in-linea.

Le difficoltà trovate nel congiungere la filosofia della propria M1 con quella delle Michelin, hanno forse fatto prendere a Yamaha sotto gamba l’arrivo della centralina unica. Due novità altrettanto corpose ed interessanti. Pare che ad Iwata abbiano deciso di far passare in secondo piano la questione elettronica, a differenza di Honda e Ducati. In MotoGP chiaramente non esiste un motore uguale agli altri, per questo il software della Marelli garantiva e garantisce discreti spazi di manovra per adattarsi ad ogni propulsore. 

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Inoltre il regolamento concede ai costruttori viene concessa completa libertà per quanto concerne la piattaforma inerziale. Si tratta di  una scatoletta magica che permette alla centralina di conoscere tutte le informazioni sui movimenti della moto, fornendo le accelerazioni lungo i tre assi principali -quindi le tre accelerazioni X Y e Z- e i tre angoli di rotazione sugli assi, ovvero piega, impennata ed imbardata. In questo contesto va quindi ricordato come a Tokio ed a Borgo Panigale vennero assunti addirittura tecnici ex Marelli, che conoscevano bene il progetto della centralina unica. Una mossa ritenuta inutile da Yamaha. 

Con una piattaforma inerziale all’avanguardia, i dati inviati alla centralina sono più accurati. Con dati più accurati, la centralina lavora meglio e più velocemente, così Honda e Ducati hanno realizzato piattaforme inerziali ad hoc, grazie al personale ex Marelli. Possiamo dire che la Yamaha è di almeno una stagione indietro rispetto ai rivali per quanto concerne l’elettronica. I controlli  di trazione ed impennata, nati per evitare rovinose cadute, sono diventati strumenti fondamentali per abbassare i tempi sul giro. Nell’ultimo lustro questi due controlli, uniti alla gestione del freno motore, sono diventati un complesso essenziale per gestire l’usura delle gomme.

L’usura delle gomme è aspetto che si sta rivelando determinante per vincere in questi ultimi due anni. La M1 2018 tende ad usurare precocemente la Michelin posteriore non solo per una questione elettronica, ma anche per una questione meccanica. Il tutto è frutto di un errore in fase di progettazione del motore lo scorso inverno, e non legato alla configurazione del motore in senso assoluto. I V4 a 90° tradizionali, con le manovelle a 180° come quello di Honda, hanno il vantaggio di stressare meno la gomma grazie ad una fasatura degli scoppi favorevole, naturalmente regolare. Motori V4 tradizionali ad angolo più stretto stressano ancora meno le gomme, così come i V4 90° twin pulse con manovelle a 70° che utilizza Ducati.

Un 4-in-linea screamer, con manovelle a 180°, usura precocemente le gomme. Un difetto a cui Yamaha ovviò già nel 2004, introducendo l’albero motore a croce con manovelle a 90°. In questa maniera si va ad avvicinare due scoppi, rendendo la fasatura di scoppio irregolare ed uguale a quella di un V4 con manovelle a 180°. In contemporanea, sempre seguendo le sensazioni riscontrate da Rossi, si abbandonò la testata a 5 valvole in favore di quella a 4. Quindi le difficoltà di quest’anno non dipendono dalla natura del motore che la M1 utilizza da sempre, quanto da un suo errato sviluppo recente.

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Sì gli ultimi 23 GP sono stati vinti da motori V4, ma non necessariamente si tratta dell’unica configurazione vincente. Nel motorsport è fondamentale scendere a compromessi per andare forte, si sta in equilibrio precario tra stabilità ed agilità, potenza agli alti e vigore ai medi regimi, potenza frenante e modulabilità dell’impianto. La riuscita di una scelta tecnica dipende da come si lavora, ciascuna ha pregi e difetti: bisogna saper massimizzare i vantaggi e minimizzare gli svantaggi delle proprie scelte. In questo caso gli svantaggi dell’uno coincidono coi vantaggi dell’altro. E viceversa.
Uno dei difetti del motore in linea di Yamaha, e Suzuki, sta nell’albero motore, più lungo e pesante rispetto ad un V4. Proprio l’albero motore della M1 2018 è la questione meccanica che sta mettendo in difficoltà team e piloti.

Ad Iwata, nei primi anni delle MotoGP 4 tempi, erano stati bravissimi a minimizzare i limiti di un albero motore più lungo e pesante: addirittura lo trasformarono in un vantaggio rendendolo controrotante. In una moto, l’albero motore non serve solamente a rendere rotatorio il moto lineare dei pistoni: complici la sua massa e le sue dimensioni è uno snodo cruciale nella dinamica del veicolo. Ruotando nello stesso senso delle ruote, un albero motore genera un effetto giroscopico che va a sommarsi a quello generato delle ruote stesse. Così la moto, all’aumentare della velocità e del regime di rotazione del motore, diventa sempre più dura da manovrare e tende ad andare dritta.

Rovesciando il senso di rotazione dell’albero motore avviene il contrario, con l’effetto giroscopico dello stesso che si va a sottrarre a quello delle ruote: la moto diventa molto più agile alle alte velocità. Inoltre con un albero controrotante la moto ha minor tendenza ad impennarsi, sia in frenata che in accelerazione. In un colpo solo i costruttori dotati di un V4 -o V5- si trovarono ad inseguire Yamaha, visto che anche ruotando il verso di rotazione i loro alberi, più leggeri e molto più compatti, ottenevano un minor effetto giroscopico negativo guadagnando meno in handling.

L’albero motore deve inoltre essere  abbastanza pesante da smorzare gli impulsi di coppia che arrivano alla gomma, ma pure abbastanza leggero da assorbire meno potenza possibile. In Yamaha, lo scorso inverno, hanno lavorato per trovare maggior potenza massima, esasperando il diagramma di distribuzione e sviluppando in maniera errata l’albero motore. Lo hanno fatto troppo leggero.

Di conseguenza il motore della M1 scarica con troppa veemenza la potenza sulla gomma posteriore, che si surriscalda non venendo sostenuta da un traction control di livello. Inoltre, a causa del minor effetto giroscopico ‘negativo’, la M1 ha perso agilità e precisione in ingresso curva e nei cambi di direzione. Si tratta di un difetto ‘facilmente’ risolvibile, ma bloccato dal regolamento.

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Un errore identico lo commise anche Honda nel 2015, portandosi avanti il problema per tutta la stagione. Questo perché in MotoGP i motori dei costruttori che l’anno precedente hanno vinto sono congelati nello sviluppo. In Yamaha non possono apportare modifiche al motore fino al termine della stagione, e complice il ritardo dal punto di vista elettronico non possono nemmeno limitare i danni. Yamaha nel 2019 non potrà comunque accedere alle concessioni motoristiche, 9 motori con sviluppo libero anziché 7 congelati, poiché possono accedervi solamente i costruttori che hanno raccolto meno di 6 concession points. Questi punti concessione vengono in base ai piazzamenti sul podio: 1 punto per ogni terzo posto, 2 punti per ogni secondo posto e 3 per ogni vittoria (quest’ultima variante nel caso sia un costruttore entrato o tornato in MotoGP dopo il 2013).

Sarebbe facile dare la colpa ai piloti, ma estremamente fuorviante. I piloti si limitano a provare quello che viene montato sulle loro moto dai team, che a loro volta montano ciò che viene loro inviato dalla fabbrica. In febbraio da Iwata arrivarono due motori e due ciclistiche per la M1 2018. I piloti avevano -e avranno sempre- il compito di scegliere l’alternativa adatta e descrivere i comportamenti del mezzo, non di progettare.

Quasi sicuramente, dovremo aspettare il 2019 per vedere una Yamaha che possa almeno lottare per la vittoria. Questo perché la prossima stagione verrà risolta con una certa facilità pure la questione della piattaforma inerziale. Dal 2019 infatti la piattaforma inerziale sarà unica ed uguale per tutti, andando a colmare il gap tra il duo Honda-Ducati e tutte le altre.
Ma non basteranno questi miglioramenti a Yamaha per far tornare vincente la M1. La casa dei tre diapason dovrà impegnarsi per far digerire alla M1 le Michelin, la risoluzione dei problemi generati dall’albero motore e dalla gestione elettronica semplificheranno solamente il percorso.

Si dovrà lavorare sulla distribuzione delle masse, quindi sul posizionamento del motore e sulla rigidezza del telaio. Nel 2017 sbagliarono andando ad arretrare il motore ed irrigidendo la parte posteriore delle travi, causando il famoso sottosterzo ed aggravando gli stress subiti dallo pneumatico. Poi con l’arrivo della  famosa anteriore dalla carcassa più rigida, utilizzata dal GP del Mugello 2017 in poi, persero la bussola. Doveva migliorare l’inserimento in curva, invece ha amplificato il problema al posteriore andandovi a distribuire più sollecitazioni sulla carcassa della gomma.

Un lavoro impegnativo ma che in Yamaha dovranno fare tornando a darsi tutti retta. Perché in Yamaha sembra mancare l’armonia, tanto umana, nel complesso rapporto a tre tra piloti-team-reparto corse, quanto tecnica, con le varie parti della moto che sembrano non nate per lavorare sulla stessa moto. Infine l’armonia è quell’accordatura di voci e strumenti che rende bello l’efficace ed efficace il bello. Magari ad Iwata busseranno alla porta dell’ufficio di fronte, quello della sezione musicale, per accordare nuovamente il tutto.

P.S. Il pilota ingegnere non è una leggenda metropolitana. In realtà ne è esistito uno, era Jarno Saarinen. Il primo vero Finlandese Volante, che sognava di progettare moto da corsa e finì per diventare pilota e campione del mondo. Rimaneggiando una Yamaha clienti.





Filippo Gardin

The author Filippo Gardin

Padovano classe 1993, ho iniziato a 2 anni a guidare, in quel caso una mini-replica della moto di Mick Doohan e da lì non mi sono più fermato. 2 e 4 ruote, entro e fuori strada e anche pista: cambiano le forme ma sono tutti frutti della stessa passione. Vi racconterò il Motomondiale, con la testa e con il cuore.